#make_brave_choices

Confessioni represse.

Quando, come società, abbiamo deciso che le vittime di oppressione hanno soltanto il diritto di piangere e disperarsi? Quando abbiamo tolto agli oppressi il diritto di ribellarsi ai propri aguzzini e perché ci arroghiamo il diritto di giudicarli se rispondono invece di tacere?

Secondo te, chi di noi ha fatto la scelta migliore: io che l’ho perso oppure tu che non l’hai mai lasciato andare? Ho provato compassione quando ho scoperto che eri rimasta ad aspettarlo per due anni, poi però mi sono chiesta – in questi due anni cosa ti ha fermato dal lasciarlo andare? Lo hai tenuto nella tua vita e mentre lui si illudeva di essere libero, tu lo tenevi legato a te sotto costante controllo, o mi sbaglio? Il vostro legame è così forte da superare questo tempo a parte oppure la tua determinazione a tenerlo a qualsiasi costo – persino a quello del vostro individuale benessere – è così potente da averlo incatenato facendogli credere che quella fosse libertà? Me lo chiedo a circa un anno da quando è entrato nella mia vita, un anno dei due lontani da te. Me lo chiedo perché non vorrei fare l’errore di legare una persona a me togliendo a lui e a me stessa l’amore e la libertà. Eppure capisco quanto si fatica a lasciare andare l’illusione di un amore eterno, lo sento in ogni cellula del mio corpo in ogni istante – è parte integrante del mio passato presente futuro – però siamo cambiati nel tempo insieme e l’amore a metà o tre quarti non è completo. Lui ha la libertà di scegliere e pur se dolorosamente, è la verità, non ha scelto me, ma te.

E tu? Tu che fino a qui eri lui, ora che sei solo un tu – come ti faccio a lasciare andare dopo che ho visto il mio futuro con te insieme mentre non avevo che una parte di te nel nostro presente, una parte che ha colmato il mio corpo di un amore che non immaginavo di poter provare. Sento la tua mancanza mentre guardo la finestra che si chiude male e che tu avresti saputo aggiustare. Sento la tua mancanza mentre a pranzo preparo per due e apparecchio per uno e poi, infine, verso il caffè in una sola tazzina. Sento la tua mancanza mentre mi preparo per andare a letto e non posso raccontarti le grandi sfide e le piccole conquiste della giornata. Sento spesso la tua mancanza, ma la tua assenza mi ha dato la spinta a trovare la forza di andare avanti con la tutta e solo me stessa. La tua presenza indecisa, che io ho sperato per mesi si riversasse nella mia direzione, mi aveva reso fontana nel tuo deserto e stavo finendo l’acqua per me. Arrivavi stremato dalla solitudine e dal rimpianto di avermi persa e io ti dissetavo incoraggiandoti a risollevarti e proseguire e tu proseguivi, allontanandoti nuovamente. La tua sporadica presenza mi aveva portato a trattenere il fiato in attesa che il tuo nome apparisse sullo schermo del telefono o che mentre mi parlavi comparisse tra le tue parole una che avrebbe confermato che questa volta saresti rimasto per il resto del tempo. La mia attesa fu ogni volta disattesa e così sono partita per cercare l’acqua per me.

Mi rimangono la pressione nel fianco e la fatica a respirare. Perché sono rimasta ad aspettarti dopo che sei andato via? Perché mentre mi allontanavi non mi sono decisa a non ritornare o a non accettare i tuoi ritorni? Perché quando ti ho allontanato io non sei andato via? Perché non riusciamo a separarci? Perché non riesco a stare bene? Ho pensato fosse per la paura di tornare a sentirmi sola, ma mi sono sentita sola in più di un’occasione in questi mesi in cui tu cercavi una risposta dentro di te che tardava ad arrivare. Ho pensato fosse per l’intensità delle emozioni che provo quando i nostri corpi si sfiorano, ma mentre cercavi di chiudermi fuori dalla tua vita quella sensazione di leggerezza che provavo quando il mio corpo si avvicinava al tuo si era affievolita. Ho pensato fosse per l’affinità delle nostre anime, ma la nostra somiglianza ci ha fatto rispecchiare l’uno nell’altra i dolori più profondi che inutilmente abbiamo tentato di inabissare. Ho pensato fosse per una sorta di testardaggine adolescenziale che non tollera l’essere lasciata, ma quando mi sono decisa ad andarmene io, ti sono comunque rimasta vicino. Ho pensato fosse per il legame unico, mai conosciuto prima, del quale volevo scoprire l’estensione, ma quell’affetto non è stato sufficiente a sopperire il dolore di averti accanto e distante allo stesso tempo e sono andata via. Ho pensato, ma la risposta che cercavo non era nel pensiero, era nel nodo in gola che ricompariva con te.

Il nodo in gola è in parte la paura di essere ferita come hai fatto tu nel tentativo vano di rimanere in un guscio dal quale avevi paura di uscire; ferita da parole che deridono ciò che per me è importante senza badare se mi avrebbe fatto male; ferita da un corpo familiare che pensi ti proteggerà e invece un giorno, proprio quando sei più fragile, ti si scaglia contro nella sua disarmante mostruosità e il tuo corpo rischia di non sopravvivere all’urto. Sono rimasta perché con te accanto non avevo paura che il mio corpo venisse ferito, anche se hai ferito il mio respiro. Avrei tanto voluto non metterti alla prova, non esacerbarti per vedere fin dove ti potresti spingere quando ti arrabbi, visto che nella tua impassibilità durata anni non hai mai mostrato un filo di ira. Sapevo ancora prima di vederti arrabbiato con la “curva gaussiana” che quando tocca il fondo inizia già la sua risalita – un po’ come noi – che la tua rabbia non fa timore. Il mio corpo lo sapeva quando vicino a te scioglieva ogni tensione. La mia mente lo sapeva quando si abbandonava all’oblio attorniata dalle tue parole. Mi hai chiesto perché sono rimasta nonostante tu mi abbia ferito. Sono rimasta perché tu hai ferito il mio ego, ma mai hai ferito la mia persona. Sono rimasta perché quando ti guardavo sorridere divertito, il mio corpo si riempiva di gioia e la paura svaniva.

Sono rimasta perché i tuoi colpi al mio ego mi hanno liberata da un peso che mi teneva prigioniera nel terrore e nell’orrore dei dolori passati presenti futuri. Ti ho mostrato quello che credevo di dover nascondere e ho scoperto di non essere ripugnante, di non essere spaventosa, di non essere indegna di amore e di essere amata. Tu sei incredulo perché hai visto il dolore che mi hai causato e io che, apparentemente, sono rimasta a subirlo. Io sono incredula perché ho visto un uomo che ha provato un dolore più grande di quello causato perché si è reso involontariamente artefice di un male. Un uomo che ha ferito per la stessa paura che ho io di mostrarmi vulnerabile e scoperta, un uomo che è riuscito a fare male soltanto a ciò che causava il mio malessere e a liberare dal profondo un ostaggio celato per quasi tutta la vita – io. Sono rimasta perché per quanto esausti, arrabbiati, addolorati, noi ci siamo colpiti l’un l’altro solo con parole che facevano più male a noi a dirle che a sentirsele dire. Sentirti indeciso riguardo la nostra relazione mi ha ferita, è vero, ma quei colpi hanno infranto anche la mia paura che non mi permetteva di vivere liberamente e mi ha ricordata che posso stare nuovamente bene, anche senza te.  

Hai ferito il nemico dentro di me, lasciandomi uscire allo scoperto. Mi hai spinto a cercare una nuova strada per me stessa, una strada in cui la frustrazione, la rabbia, l’odio, la cattiveria del mondo in cui vivono i nostri corpi non avessero più spazio. Una strada alla ricerca di una parte di me che non ho mai conosciuto – una parte di me fatta di amore per me stessa. Mi hai fatto capire che se non amo me stessa, non è amore quello che credo di offrire come amore. Il breve periodo di spensieratezza tra noi ha simboleggiato l’inizio di un nuovo tragitto verso la cura di me, poi quando sono arrivati i tuoi dubbi ho dovuto iniziare ad ancorarmi a me stessa per scoprire piano piano che ero capace di stare bene anche se attorno a me tutto sembrava andare storto. E’ cominciato con il prendermi cura di ciò che mi stava vicino: tenere la casa in ordine, sistemarmi anche se non dovevo uscire e parte il cane non mi vedeva nessuno. Poi è arrivata quella notte, quella notte che ha dato inizio alle nostre confessioni represse. Quella notte che ci ha fatto aprire i nostri pensieri e riversare nell’aria attorno le parole delle nostre più intime paure.

Il nodo in gola sparisce ogni volta che prendo la decisione di non farmi influenzare dal nostro rapporto altalenante nel mio cammino futuro. Sparisce e ritorna quando la paura di non essere abbastanza si ripresenta. Quella notte di confessioni è stata seguita da settimane di rivelazioni, abbiamo svuotato noi stessi di fronte all’altro e, il pensiero mi è testimone, ho creduto che non ci saremmo più riusciti ad avvicinare una volta fatti sfilare uno a uno i nostri demoni nascosti. Poi la sorpresa, non solo vedere gli aspetti più nascosti di noi non ci ha allontanati, ma ci ha avvicinati come se fossimo due sopravvissuti a un massacro che si trovano nella consapevolezza di essere gli unici rimasti ancora in vita. Non so se questo sia sintomo di un amore profondo o di un’abissale follia. Dopo queste settimane di disperazione ho iniziato a odiare il fatto che fossi tutto quello che ho sempre sognato di incontrare e allo stesso tempo sentire che sei distante un muro di Berlino dall’essere presente con me con tutto il tuo corpo, con tutta la tua anima. Ho odiato quanto mi sentivo sola nonostante la tua presenza ed ero stanca di odiare.

Questo muro di Berlino è la differenza tra i nostri trascorsi, è ciò che a me fa trasalire di fronte ad alcune notizie e a te rimanere ignaro del pericolo che esse preannunciano. Quanto sono felice che a te questa paura sia ignota! Quanto vorrei non averla provata nemmeno io. Questa è la più grande differenza tra noi. La mia non è rabbia per un dolore passato, la mia è paura che chi ha sete di potere dilagante si riavvicini di nuovo mentre osservo cosa stanno facendo a chi ancora non li conosceva – lo stesso che hanno fatto anche a me e ai miei antenati, oltre ad altre centinaia di milioni di persone vissute su questa terra. Non è un dolore passato il mio, è la nostra attualità e tu che sei cresciuto lontano da questo, non capisci che io lo vedo avanzare impunito da secoli e ognuno di noi, di quelli che hanno subito questa tragedia e questo terrore senza rimanere vittime della sindrome di Stoccolma, sa che mettere in dubbio la vittima è la loro strategia più potente. Io non ho paura di quello che è passato, io ho paura di quello che è presente e ho paura che arrivi anche qui dove non erano ancora arrivati. Accanto a te però pure questa paura svaniva.

Come abbiamo fatto a dimenticare l’orrore di una città divisa in due per circa quarantaquattro anni? Come facciamo a non accorgerci che lo stesso pericolo è ritornato e minaccia altre città a essere cancellate dal tempo o divise da muri che interrompono strade e separano persone? Quando, come società, abbiamo deciso che le vittime di oppressione hanno soltanto il diritto di piangere e disperarsi? Quando abbiamo tolto agli oppressi il diritto di ribellarsi ai propri aguzzini e perché ci arroghiamo il diritto di giudicarli se rispondono invece di tacere? Quando abbiamo iniziato a togliere il volume alla voce delle vittime per mettere in risalto quella dei loro torturatori? Non mi aspetto, e non voglio, che tu capisca cosa si provi a vedere allargarsi il potere del terrore, perché per capirlo avresti dovuto passarci attraverso e io non voglio che tu provi mai nella tua vita una sensazione simile, ma proprio per proteggerti dal trovarti in una simile situazione che cerco di avvisare del pericolo incombente. Ho un nodo in gola perché ho paura che i tiranni vinceranno di nuovo e il loro terrore continuerà, perché anche se la colpa non è collettiva, la responsabilità di averlo permesso e quella di aver gioito dei beni rubati agli oppressi è anche di chi li sostiene e li supporta ancora e ancora. Questa è la mia paura più grande e ti confesso che con te accanto sentivo meno paura e più forza per andare oltre il passato e sentirmi capace di resistere dinanzi al pericolo di una repressione collettiva. Ora sto scoprendo come non avere paura anche senza te accanto.

Il nodo in gola sparisce quando sparisce la paura.