#glowing_in_dark

Sopravvivenza errante.

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Vagava per le strade senza una meta. Teneva la testa piegata all’indietro e guardava il cielo che emergeva tra un palazzo e l’altro. Riusciva a scorgere qua e la una stella che si era dimenticata di spegnere la propria luce. Posava i piedi con la cautela di un gatto in avanscoperta: uno alla volta di fronte a sé. Cercava di identificare Sirio. Era un ragazzino lesto di solito, ma quella sera si sentiva affaticato e avrebbe tanto voluto tornare a casa. Nel mentre vagava. Girò un paio di volte a destra, poi una a sinistra, giusto per non ritrovarsi nel punto di partenza. Si trovò di fronte a Les Invalides. Si distese sul muretto che separa il marciapiedi dal giardino della casa di cura per bambini e anziani. L’illuminazione artificiale gli impediva di cercare la sua stella, ma era anche stanco e cercare un luogo buio non sembrava per niente una buona idea. Appoggiò la testa sulla pietra nuda. Sentire sotto la nuca il freddo, però, non gli piacque. Incrociò le dita e alzò le braccia sopra la testa con i palmi rivolti al cielo allungando i muscoli per distendersi, poi con un lieve sforzo all’altezza del collo portò il mento a toccare il manubrio e vi posò le mani dietro la nuca rilassando nuovamente tutti i muscoli.

E’ stata una giornata lunga. Due ingombri umani hanno tentato di abusare della sua gentilezza e lo stavano probabilmente per usare come cavia per qualche infido esperimento, dopo che lui, con tanto di incoscienza, si offrì di accompagnarli fino al Necker dei quali i due chiedevano, ma una volta entrati in Rue de Vaugirard, questi lo presero di forza per le braccia e sfruttando l’ora della siesta e l’assenza di persone in strada, vollero portarlo chissà dove. Non considerarono che Sage era un ragazzino di dodici anni che si difendeva ancora come fanno gli animali selvatici. Lasciò un’impronta dei suoi denti sulle mani villose di uno due ingombri e un calcio nelle palle dell’altro e fuggì lasciandoli doloranti e urlanti dietro di sé. Lui non era venuto in città per farsi rapire da due scimmioni senza identità. Fece una corsa fino a che non trovò un portone, che portava nel giardino interno di un palazzo, lasciato aperto e si intrufolò velocemente nascondendosi nel vano scale. Sentiva il cuore battergli forte, tanto che ci vollero ore per riuscire a tranquillizzarsi e smettere di respirare affannosamente. Una volta ripreso il fiato, prese sonno. Si svegliò che era già buio. Uscì facendo sporgere prima solo la testa oltre la porta e una volta accertatosi che non c’era nessuno, ritornò in strada. Vagò per un paio di ore tra boulevard e rue. Il riposo pomeridiano-serale gli avrebbe permesso di rimanere vigile durante la notte. Si sa mai rincontrava i due gorilla. Che palle però. Avrebbe preferito sapere perché questi lo avevano preso per un sacco di patate e lo stavano portando via, invece di dover cercare di fuggire. Pulotti non erano, gli avrebbero citato almeno un paio di numeri preceduti dalle parole “décret-loi”. Non ci voleva pensare, nonostante nella testa riuscisse solo a formare ipotesi sulle possibili occupazioni dei due. Tirapiedi, buttafuori, assistenti sociali, poliziotti. Addetti allo sgombero delle strade. Ecco. Questa gli piaceva. Suonava bene.

Alla parola “sgombero” gli venne fame. Sgombro. Cosa poteva fare? Monete a disposizione per lo scambio non ne aveva, i mercanti avevano comunque chiuso da tempo e i ristoranti non davano da mangiare ai minori. In cucina il rumore delle pentole, dei coltelli e dei piatti iniziava a definirsi meglio. Sage con gli occhi chiusi ascoltava il modularsi dei rumori. Ora il coltello batteva sul tagliere, ora il cucchiaio suonava la pentola, ora i piatti si incontravano facendo chiasso. Aprì gli occhi. Soffitto bianco, muri gialli, copriletto blu. Camera sua. Odorava di lenzuola pulite. La mamma gliele lavava sempre aggiungendovi un poco di essenza di lavanda. “Sage, amore, la cena è pronta!” Il più dolce dei suoni. Più buono persino del profumo di pollo con verdure che sua mamma era bravissima a fare. Sui muri, con stelle fosforescenti adesive, aveva creato le costellazioni che suo padre gli insegnò a riconoscere. Cane maggiore, Poppa, Orione, Carena, Cane minore. Aveva sistemato tutte le stelle in modo accurato per ricreare il Triangolo Invernale, che si vedeva benissimo il giorno del suo compleanno. Sirio, Procione e Betelgeuse brillano più intensamente. Le palpebre gli pesavano. Chiuse di nuovo gli occhi e si lasciò trasportare nel mondo dei sogni da una fata vestita di bianco. Lei lo cullava dolcemente e nel mentre sorvolavano luoghi che Sage aveva mai visto prima. Campi colorati di verde, azzurro, giallo, rosso, blu. Il vento gli accarezzava i capelli biondo oro e trasformava la sua camicetta in un piccolo paracadute. Poi il vento diventò più forte e le immagini divennero grigie. Palazzi, capannoni, strade. Sage strinse forte tra le mani l’abito bianco della fata e lo portò davanti al viso come una maschera intento a coprirsi sia dal vento che si era scattenato sia dalle immagini che lo turbavano. Sentì il freddo colpire. Un dolore simile a quello che si prova quando un ago penetra la pelle. Vedeva tutto bianco. Poi si ricordò che aveva davanti agli occhi l’abito della fata, ma quando lo scostò e si guardò attorno, nulla era diverso. Bianco candido ovunque. Distingueva le dita della fata sulla sua schiena e sotto alle sue ginocchia; erano calde e lo tenevano dolcemente come faceva sua madre quando aveva la febbre. Il calore passava dalle mani della fata al suo corpo. Improvvisamente cessò di sentire le mani che lo reggevano e tornò a sentire la pietra del muretto di Les Invalides. Riaprì gli occhi. Il cielo stellato e Sirio sopra la sua testa. Era notte fonda. Alzò le ginocchia e appoggiò le piante dei piedi sul muretto. Iniziava a svegliarsi.

Non sapeva dove andare. Si tirò su malvolentieri e iniziò a vagare a zig zag per Avenue de Tourville. Boulevard des Invalides. Avrebbe potuto bussare al grande portone sul lato del Boulevard, ma aveva il timore che una volta entrato non sarebbe più riuscito a uscire. Lui voleva essere libero. Aveva sentito questa parola da suo padre. La gridò tantissime volte mentre usciva di casa l’ultima volta che lo vide. Allora aveva solo sette anni e non aveva ancora imparato a trattenere le lacrime. Piangeva e cercava di rincorrerlo, ma sua madre lo teneva stretto tra le braccia. Rue de Grenelle. Una gru a torre gialla tra Grenelle e Talleyrand. Attaccato al braccio della gru un grande sasso divenuto verde a causa del muschio. Sinistra. Chissà chi era Maréchal Gallieni? Fino a qui nessun passante, nessuna macchina. Senna. Dall’altro lato del fiume la prua di una barca rifletteva la luna nel bianco del quale fu dipinta forse ancora prima che Sage nascesse. Guardò attentamente tutta la riva opposta. Dall’acqua emergevano le prue delle barche affondate. Sembravano dei gabbiani. In fila una a fianco dell’altra. In postazione. Pronti partenza via. Sage chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e iniziò a urlare. L’aria fuoriusciva dai polmoni e si librava nell’aria creando piccole spirali. Nessuno lo aveva sentito. Le prue si mossero spinte dal vento che spirò quasi in risposta all’urlo di Sage. Un senso di gioia lo pervase. Protrasse il petto in avanti e tirò l’aria nei polmoni. Alzò le braccia verso le stelle e sospirò sollevato. Si levò la maglietta, la piegò con cura e l’appoggiò su un piccolo spiazzo di erba accanto. Si tolse anche i pantaloncini e ripetè la procedura. Si ritrovò in mutande. Le gambe sottili poggiavano tremolanti sulla terra nuda e le braccia pendevano indecise lungo il corpo. Fece un paio di passi in avanti e si fermò su un sasso che per metà era sommerso dall’acqua del fiume. Guardò a lungo il proprio riflesso. I capelli arruffati e in parte appiccicati alla fronte alta. Tirò su col naso e sputtò di lato. Fece due passi indietro, prese la rincorsa e si tuffò. L’acqua gelida lo riportò in vita. Si immerse. Aprì gli occhi sott’acqua. Desiderava rimanerci in quello stato di pace che lo pervadeva nell’assenza totale di rumori. L’acqua lo cullava. Non tratteneva il respiro, semplicemente non aveva più aria nei polmoni. Piccole lucciole comparivano davanti ai suoi occhi. Il corpo non spingeva verso l’alto, bensì verso il fondo del fiume. Si lasciava spostare dalla corrente. Improvvisamente sentì una fitta alla sommità della testa. Qualcuno lo stava tirando per i capelli. Si ritrovò con la testa fuori dall’acqua e ancora sorretto per i capelli dalla mano di non si sa chi. Aprì la bocca e tirò dentro l’aria più volte. Appena iniziò a galleggiare e a respirare con un ritmo più consueto, la stessa mano che lo reggeva su, si scostò, prese forza allontanandosi e si riavvicinò alla nuca facendo tornare il viso di Sage sott’acqua. Insomma, uno schiaffone. Le gocce d’acqua partirono in ogni direzione. Per sicurezza, la testa di Sage venne ritirata fuori dall’acqua agganciata per i capelli come prima. Questa volta lo schiaffo gli fu risparmiato. Ma chi si credeva questo che improvvisamente si mette a schiaffeggiare la gente a caso. Stronzo. Si girò per guardare bene il viso del bastardo. La prima cosa che vide furono due occhi verdi che lo guardavano fissi, nemmeno il buio celava la loro rabbia. I capelli bagnati erano accostati all’indietro. Le labbra serrate pulsavano di sangue. Una donna! Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe beccato uno schiaffo da una tipa. Questa non gli parlò nemmeno. Lo agganciò dal collo con il braccio e iniziò a nuotare con l’altro braccio verso la riva. Arrivati vicino alla terra gli diede una spinta per buttarlo fuori dall’acqua, si appoggiò con entrambe le braccia e si sollevò rimanendo sulle ginocchia vicino a lui. Con entrambe le mani si tolse l’acqua dal viso e si tirò all’indietro i capelli. Aveva un vestito scuro che li si era appiccicato al corpo facendo intravedere le curve decisamente femminili. 

“Scemo!” 

“Che vuoi?!” 

Lei si alzò, lo guardò squadrandolo dalla testa ai piedi e per non sbagliare gli ricordò lo schiaffo con il gesto. Sage indietreggiò rimanendo seduto. Cazzo, questa ha un problema di controllo della rabbia. 

“Potevi morire!”

“Non era mia intenzione!”

“Saresti affogato con o senza l’intenzione. Che fai in giro da solo a quest’ora della notte?”

“A te che importa?!”

“Che sgarbato!”

“Chespaccapalle!”

“Ragazzino, modera i termini!”

“Che termini?!”

Silenzio. Sembrava che con questa domanda lui le avesse tolto la capacità di parlare. La guardava aspettando una sua risposta, ma lei era assorta in pensieri lontani. Si stava scostando il vestito dal ventre con gesti veloci e ripetitivi, ma lui vedeva che lo stava comunque tenendo d’occhio. Un brezza fresca lo fece trasalire. Si dimenticò di essere bagnato come un pulcino sotto al diluvio. Il vento lo sentiva come dei piccoli colpetti di ghiaccio sulle braccia e sulle gambe. Si abbracciò le ginocchia, dopo essersi tirato sulla schiena la maglietta ancora piegata. 

“Dove è la tua casa?”

Non sapeva come rispondere. Appoggiò la testa sulle ginocchia girandola dalla parte opposta rispetto alla tipa. Non voleva che lei vedesse i suoi pensieri. 

“Vestiti che andiamo!”

Cosa?! Andiamo dove?! Che vuole questa?! 

Non voleva, però, discutere. Si trascinò mal volentieri la maglietta prima sulla testa, poi ci infilò in ordine un braccio, poi l’altro. Con i pantaloncini la storia era più immediata. Non si alzò nemmeno. Vestito era vestito, ma non aveva ancora capito perché mai sarebbe dovuto andare via con lei. Era riuscito a scappare dai due scimmioni, cosa gli vietava di fuggire via anche da lei. La tipa era in piedi di fronte a lui con la mano allungata. Il palmo rivolto verso il cielo raccoglieva la luce nelle gocce d’acqua rimaste. Non riusciva a odiarla. Non aveva ancora dimenticato lo schiaffo, ma non aveva sentito dolore e lei gli sembrava simpatica. Appoggiò la sua mano in quella di lei e sentì il braccio tirare il resto del corpo su dall’erba fredda. La stessa mano che gli pizzò la nuca, ora gli accarezzava dolcemente la sommità della testa. Lo faceva anche sua madre quando lui era triste, per qualche ragione, che in questo momento gli pareva stupida e insignificante. Mamma…

“Come ti chiami?”

“Sage…” Sommesso. 

“Hai un bellissimo nome.”

“Aga.”

“Io mi chiamo Delia.”

Le stelle illuminino il tuo cammino, piccolo umano errante.